Scrivere un parere sulla Biennale di Architettura 2010 a Venezia mi mette addosso una tristezza melanconica. Vorrei felicitarmi con la direttrice Kazuyo Sejima e appoggiarla nel suo sforzo di superare la vergogna delle Biennali precedenti, dove anche i visitatori che avessero portato con loro una lente d’ingrandimento non avrebbero potuto trovare una minima traccia d’architettura (se pago venti euro per l’ingresso alla Mostra Internazionale dei Gatti, mi aspetto di vedere alcuni felini e di sentire qualche miagolio!).
Questa volta la sua idea di portare la gente a incontrarsi attraverso l’architettura è certamente lodevole e condivisibile. Resta il fatto, però, che la distanza tra un’architettura basata sulla fisiologia umana, la biologia e la natura e l’autoproclamata “architettura” fatta di sculture astratte e immagini spettacolari è incolmabile. L’attuale generazione di architetti di spicco si è allontanata tanto della realtà (nella sua ricerca di “novità” che non rispetta niente e nessuno) che si è persa nello spazio più profondo. Certo, può ottenere premi prestigiosi e parlare di “archistar” sui quotidiani fino a quando la gente è sovreccitata dall’ennesimo encomio per le “nuove forme” e le persone “geniali” che progettano queste forme, però il prodotto costruito non è vivo e non è adattato agli esseri umani.
L’ambiente adatto.
I miei amici del Gruppo Salìngaros cercano un’architettura e un’urbanistica basate su fondamenti scientifici. L’ambiente costruito adattato alla vita umana si sviluppa dalle regole che determinano la natura e la vita stessa. Quest’architettura dà una sorta di alimentazione al sistema sensoriale dell’utente: è quello che chiamiamo Biofilìa. Esiste anche il contrario. Ci sono forme che fanno male; l’arte per l’arte è prerogativa di una società aperta, ma l’architettura non è arte pura perché produce degli effetti nella vita reale, sulla società, sulla mente e anche sulla fisiologia di chi la assorbe. Manca nella coscienza condivisa contemporanea (ma non nella fisiologia umana) un vero criterio per definire cosa è arte, e di questo vuoto intellettuale ha profittato un’élite per creare una bolla finanziaria speculativa. Un mercato di costosissimi edifici di moda destinato a venir giù. Come possiamo parlare degli architetti che fanno il contrario della natura, cioè progettare e costruire strutture che creano disagio nell’utente? Quest’aspetto fondamentale dell’architettura non sembra entrare nelle feste mediatiche. Si tratta ovviamente di due concezioni opposte di cos’è l’architettura.
Nessun giudizio.
Non posso proprio giudicare quello che è esposto alla Biennale: sarebbe un esercizio frustrante e anche poco giusto per i miei colleghi architetti che non sono inclusi nelle mostre. Loro seguono criteri precisi per progettare, mentre il mio gruppo di amici segue criteri del tutto opposti. Vedo nei progetti sotto i riflettori della pubblicità, che sono giocati sull’esteriorità e sull’effimero, sull’immagine, vale a dire sul nulla. La conclusione scientifica è che soltanto uno di questi due tipi di regole di disegno corrisponde alla biologia e alla natura.
Indubbiamente si percepisce una nuova corrente tra alcuni partecipanti alla Biennale verso i concetti che proponiamo noi, per esempio come progettare spazi nei quali possiamo essere felici. Questa tendenza, però, può essere interpretata in due modi diversi. Primo: è un esercizio inutile come voler riscoprire la ruota. Vi possiamo risparmiare anni di ricerca perché il lavoro l’abbiamo già fatto noi. E, meraviglia, è tutto pubblicato nonostante il regime architettonico lo ignori. Ma nell’epoca di Internet non c’è scusa per l’ignoranza.
Secondo, — un’impressione strettamente personale — l’adozione di alcuni concetti nostri sembra uno sforzo per mantenere l’egemonia della progettazione di forme anti-umane, attraverso la strategia di arruolare un vocabolario umano. Per noi che lo riconosciamo, questo trucco mediatico è assurdo, ma purtroppo la gente, inclusi i giovani architetti pieni di speranza per un futuro migliore, cade nella truffa.
L’amico Pietro Pagliardini l’ha detto molto bene: «Se non sbaglio il tema della Biennale è qualcosa del tipo “La gente s’incontra attraverso l’architettura”. Ma la gente vera s’incontra per le strade vere, nelle case vere, e l’architettura vera, quella degli architetti in carne ed ossa, ha negato alla gente le strade dove incontrarsi e le ha dato luoghi dove ci si incontra per le scale o nei pianerottoli, dove se va bene si litiga (il litigio è pur sempre un rapporto umano), se va male ci si ignora del tutto. La migliore Biennale possibile sarebbe non una vetrina per un futuro uguale al presente ma una rassegna d’interventi che possano reggere il confronto con i luoghi in cui c’è la mostra, cioè Venezia».
Se i lettori si infastidiscono leggendo questo testo, mi dispiace. Non sapendo né delle nostre ricerche né delle presunte teorie della “nomenklatura” architettonica, una persona si trova confusa. Normalmente, si risolve questa contraddizione facendo appello alla legge dei numeri: quale dei due versanti opposti in un dibattito o in una controversia ha l’appoggio maggiore?
Come alle elezioni, la sostanza conta poco, nonostante si tratti dell’ambiente costruito dove dobbiamo vivere, lavorare, amare, invecchiare, e dove devono crescere i nostri bambini. Un evento mediatico come la Biennale d’Architettura funziona esattamente per rinforzare l’opinione della maggioranza, benché discutibile. Tutto questo rumore, i giornali pieni d’immagini scintillanti, interviste con “archistar” che dicono cose strane, a volte pazze e altre volte assai ragionevoli, promesse avveniristiche verso un futuro alieno, sterile e senza amore, sempre staccato della realtà sulla terra. Ciò che viene costruito è spesso una scultura gigante e inutile. Le belle parole, i premi, le teorie contorte, le foto e i video di tutti questi membri della élite dell’architettura contemporanea vestiti come rockstar, che si comportano come rockstar, rimane nella coscienza collettiva per influenzare il futuro.
Scelte obbligate.
La prossima scelta d’un architetto per risistemare la periferia, per l’incarico di una sede universitaria, un museo, il rinnovamento d’un edificio vecchio ricadrà — senza nessun dubbio — su una di queste persone.
Alla fine, avrà successo lo sforzo di Kazuyo Sejima per salvare la Biennale d’Architettura da un’irrilevanza verso i problemi umani attuali, o forse vediamo quest’anno una delle ultime feste mediatiche del genere? Ci sono sempre giovani da indottrinare, sempre gente dall’estero da invitare — il prezzo per partecipare al sistema globale consumistico è naturalmente l’adozione del vocabolario stilistico alieno e dell’atteggiamento anti-umano sul quale è fondata la progettazione “approvata”.
Un segno che il contenuto è più moda che architettura, viene dal fatto che le idee e le immagini degli architetti rockstar compaiono sulle riviste di moda femminile. Si tratta di una mossa inaspettatamente onesta. Un segno (o un’ammissione) del fatto che non si tratta affatto di architettura.
Libero, Domenica 29 agosto 2010, pagina 31.
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