giovedì, settembre 16, 2010

Rigenerare le periferie

di Ettore Maria Mazzola

L’Italia negli ultimi decenni ha saputo piangersi addosso più di ogni altro Paese europeo, questo grazie a quell’assurdo complesso di inferiorità culturale in campo architettonico, che è stato promosso a partire dal secondo dopoguerra con l’avvento dell’International Style e che è andato acutizzandosi nel tempo. Questo è il motivo per cui nelle nostre università si impone, più che insegnare, come si debbano progettare la città del futuro ignorando – o eventualmente ridicolizzando – la città che abbiamo ereditato.


La cosa seria è che vengono ignorati anche i più recenti risultati scientifici sull’urbanistica , … forse perché dimostrano che la città storica aveva trovato la forma più sostenibile! L’Italia, con la Legge Urbanistica 1150 del 1942, è stato uno dei primi Paesi ad abboccare all’esca avvelenata della Carta di Atene del ’33 (la “Carta di Atene”, che sancì la nascita del “modernismo” architettonico e della pianificazione delle città in funzione delle automobili, venne pubblicata per la prima volta nel ’42, e a nome del solo Le Corbusier, visto che gli altri personaggi che avevano partecipato alla riunione ateniese non raggiunsero mai un accordo sui cosiddetti “punti dottrinali” della “carta”). Pertanto oggi continuiamo a pianificare le nostre città in base a quella folle normativa, e le sue ramificazioni posteriori, e i pianificatori ci impongono zone omogenee monofunzionali, valutano le necessità umane sulla base di indici numerici – che nulla hanno a che fare con l’essere umano – obbligano il mantenimento delle distanze di rispetto tra gli edifici, e generano così l’espansione a macchia d’olio … tanto cara a Le Corbusier, il teorico della Carta di Atene.


Le nostre città, che un tempo venivano progettate sia nel rispetto del singolo che di quello della collettività, si sono trasformate in luoghi dell’individualismo. Le case, rigorosamente distaccate dal fronte stradale e opportunamente recintate, si costruiscono lontano dalle scuole e dai negozi, perfino le chiese, un tempo generatrici di urbanità, vengono costruite all’interno di lotti recintati dove manca solo il filo spinato elettrificato a sottolineare che, al di fuori del lotto di proprietà, non si vogliono relazioni sociali! Questa urbanistica scriteriata figlia della folle visione di Le Corbusier – sponsorizzato dal produttore di automobili Voisin – ha portato le città ad essere sempre più invivibili; e non si tratta solo delle periferie, ma anche dei centri storici che, sebbene fino a pochi anni fa fossero stati risparmiati dal violentamento architettonico – come quello operato con il recente Museo dell’Ara Pacis – hanno comunque indirettamente subito il problema del congestionamento; quest’ultimo è infatti ascrivibile anche all’assenza totale di luoghi di aggregazione in periferia: non avendo alcun luogo in cui riunirsi e riconoscersi, gli abitanti delle periferie si riversano sul centro urbano alla ricerca degli spazi e delle attività negatigli!

Allora chiediamoci come sia possibile che a Roma, il cui centro è stato manomesso per soddisfare la sete di propaganda dei precedenti sindaci, la nuova amministrazione – eletta promettendo di smontare e trasferire l’autogrill che Meier ha sovrapposto all’Ara Pacis – abbia consentito un convegno ove il rapporto tra i relatori di matrice modernista e quelli tradizionali penda verso i primi, addirittura invitando Meier stesso a pontificare sul futuro urbanistico della Capitale?

Come possiamo immaginare che delle archistars, leader nel campo dell’architettura puntiforme, possano comprendere l’importanza del continuum urbanistico architettonico generatore della qualità dei centri storici? Come si può pensare che capiscano che una piazza fine a se stessa, ovvero non facente parte di una sequenza urbana, non potrà mai funzionare perché mancano le condizioni per raggiungerla passeggiando? Come si spera che si rendano conto che le città funzionano quando si articolano in percorsi e cerniere? Come speriamo che quei politici che schierano i soldati lungo le strade comprendano che non sono i fucili a portare sicurezza nei “quartieri dormitorio”, ma che basterebbe riportare i negozi lungo le loro strade per poter avere una “vigilanza” costante e non puntiforme?
Avremmo gradito di poter esprimere il nostro parere in questa circostanza, (noi del cosiddetto “gruppo Salìngaros”, un gruppo di architetti, urbanisti e sociologi che promuove la città a scala umana), ma evidentemente chi canta al di fuori del coro dell’edilizia industrializzata e della città delle automobili dà fastidio, così siamo costretti a farci da parte e a scrivere il nostro pensiero nella speranza che qualcuno, prima o poi, ascolti anche noi.

Noi non vogliamo, come i demiurghi modernisti, reinventare ogni giorno tutto daccapo, noi ci limitiamo a voler far conoscere ciò che la storia ci ha insegnato, e non si tratta di una storia remota, ma di quella più recente che venne troncata quando Gropius prima e Zevi poi teorizzarono la necessità della “tabula rasa”. Rileggendo la storia pre-modernista infatti, ci si accorge che l’Italia era molto avanti rispetto a molte di quelle nazioni che oggi guardiamo con invidia, l’Italia aveva sviluppato dei nuovi criteri di progettazione urbana miranti all’integrazione piuttosto che alla marginalizzazione, Gustavo Giovannoni aveva compreso molto prima del New Urbanism quello che è lo sviluppo urbano per duplicazione e moltiplicazione di un modello urbano autonomo e autosufficiente, ammonendo altresì sui danni dello sviluppo zonizzato, a macchia d’olio. L’Italia aveva legiferato – a livello locale e centrale – dei criteri in grado di mantenere in vita l’artigianato edilizio locale, criteri che avevano fatto sì che l’edilizia fosse la maggiore risorsa economica del Paese nel rispetto dell’ambiente. La nostra nazione aveva messo in pratica un sistema di edilizia popolare di grandissima qualità, e di bassissimo costo, che oggi viene adoperato in altri Paesi, tuttavia nelle facoltà di architettura facciamo scopiazzare dalle riviste di architettura (ma direi piuttosto di edilizia) quanto di più astruso possa venir progettato dalle star, nella vana speranza di produrre delle “archistar” italiane che possano superare quelle delle riviste patinate.

Continuando di questo passo potremo organizzare mille e più convegni, ma la realtà disastrosa delle nostre periferie non potrà mai migliorare.



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